L’armonia del vento

Smilzo era un maremmano gigantesco.  Quando lo ho visto l’ultima volta, nel suo aspetto non c’erano più somiglianze con il cavallo che aveva ricevuto questo nome. Era un personaggio: mi ha accompagnata mentre studiavo e quando accendevo il mangiacassette veniva alla finestra a sentire. Se alzavo il volume si allontanava, quando lo abbassavo si avvicinava, certi motivi lo lasciavano incantato, altri non gli interessavano e si rimetteva a brucare intorno alla casetta dove studiavo, in attesa di qualcosa di meglio.

E’ stato il primo cavallo con cui ho provato a passare delle notti in montagna in autonomia e il suo interesse per la musica mi sembrava normale. I cavalli amano l’armonia e in certa musica c’è una ricerca di armonia.

maggio 2018, in viaggio per Bardonecchia, dove Isotta ha trascorso le due estati in cui arrivavo dalla Mongolia con Custode e Tcigherè. L’incontro con l’arpa sotto il castello di Caprie l’ha stupita. Ha smesso di brucare e si è messa ad ascoltare.

Ogni volta che mi entra un motivo in testa e non se ne va, mi viene l’istinto di fischiettare. Salendo sulla pista della Mulatera, si arriva a un traverso che segue la costa della montagna e di colpo cambia versante. Prima sei nel bosco, poi sei tra aridi pascoli tagliati dalla pista che sale inesorabile. Era il tramonto e la luce delle rocce e del cielo creavano un’atmosfera speciale. Con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, lo spettacolo che si apre in quel punto è grandioso. Quella volta io guardavo la criniera di Giacomo Re che avanzava con passo preciso e proprio in quel punto mi sono messa a fischiettare un motivetto insulso. Giacomo si è girato e mi ha guardata con aria di rimprovero. Ogni volta che sono passata da lì dopo quel giorno, ho provato lo stesso senso di inadeguatezza.  Giacomo Re mi ha insegnato tante cose, ma soprattutto quel giorno. Il suo sguardo aveva detto: ‘ma come fai a non vedere che qui c’è già la musica del vento?’

semplicemente tè

Trovare una nota epica nel quotidiano può essere grandioso, ma banalizzare l’epica per me é un delitto.
сүүтэй цай: tè al latte

Il tè mongolo é prevalentemente composto da scarti del tè verde cinese e venduto in mattonelle pressate come questa. Vengono portate in buste di cuoio che vengono appese a dx della porta della gher. Ogni donna ne ha una e quando parte, la porta con sé.

mattonella di scarti di tè verde di uso comune in Mongolia
L’acqua viene fatta bollire in un wok che è lo stesso con cui si prepara ogni pietanza, si lavano le stoviglie e si scalda l’acqua del bucato. É sempre lucido dentro e nero fuori
Quando l’acqua bolle, vengono aggiunti sale e latte. Quando il latte monta, il wok viene spostato su un treppiede vicino alla stufa e viene aggiunto il tè. Dopo circa cinque minuti di infusione, viene passato in un colino e versato in uno o più termos da due litri e servito in ciotole grosse come quella che ti mando in foto, che sono le stesse in cui si mangia la zuppa, alternando tazze di tè e tazze di montone in qualsiasi forma
É sempre la donna a riempire le tazze ogni volta che si svuotano. Quando si è sazi, si porge la tazza coprendola con la mano.
il tè di Bolormaa
Иван чай
il sacchetto azzurro per trasportare l’ivan tchaj nelle bisacce da sella da una parte all’altra della Russia

Questo è quello che mi resta dell’Ivan tchai di Katia. In Russia è frequente trovare il tè nero, ma viene dalla Cina e in epoche peggiori di questa era costoso per la gente comune che metteva in infuso l’ivan tchai. Questo si ottiene con la macerazione ed essicazione delle foglie di Epilobium che é un’infestante ruderale comune anche qui.

Nel samovar, insieme all’ivan tchai si mettono anche altre erbe come timo, malva, tiglio o altre, a seconda della stagione

Il samovar é fatto così: c’è un braciere dove si mette del carbone acceso e dei piccoli legnetti, all’inizio fuma un po’, poi cimisce e la brace sempre accesa non fuma più. Il braciere scalda e tiene in caldo l’acqua contenuta nella caldaia intorno al tubo da cui esce il fumo. Sopra il ‘camino’ c’è un vassoietto su cui è appoggiata una piccola teiera che contiene le erbe e l’acqua bollente versata con un rubinetto nel piano basso della caldaia. Nelle tazze si versa un sorso di questo liquido di infusione molto concentrato che viene diluito con acqua bollente tazza per tazza.

samovar di Sasha sulla stufa della scuderia

In casa di solito si semplifica in questo modo: sulla stufa c’è un bollitore e sul tavolo una teiera in cui si infondono le erbe nell’acqua bollente. Il liquido concentrato viene versato completamente in una tazza e rimesso nella teiera per tre volte, poi ne viene versato un sorso in ogni tazza che viene diluito con l’acqua bollente del bollitore. Chi vuole aggiunge latte freddo. A oriente tutti. Verso l’Europa sempre di meno. Qualcuno, per fare l’europeo, invece del latte mette il limone e tutti si stupivano che io aggiungessi sempre il latte come gli asiatici..ma io non mi toglierò mai la nostalgia dell’Asia e nel tè nero aggiungerò il latte ogni volta che ce l’avrò.

Dio non invecchia

Dio non invecchia– Franco Arminio

C’era un regno di pascoli sempre verdi, dove si poteva bere l’acqua di ogni ruscello, il fuoco si accendeva con polvere di stelle e tutti ne avevano un sacchetto attaccato alla cintura. Rocce enormi lo circondavano e sotto quelle balme non pioveva mai. Pareti inaccessibili avevano reso impossibile l’accesso da tempo immemorabile. Il re era uno, eletto da tutti per meriti di saggezza. I soldati erano pronti a difendere i confini, ma nessuno aveva memoria di chi fossero i nemici. Nessuno era troppo e nessuno mancava. Uomini e animali sapevano comunicare, alcune persone parlavano il linguaggio degli esseri dell’aria, altri degli esseri dell’acqua, certi dei carnivori e altri degli erbivori e vivevano un patto di mutuo soccorso affinché né gli uni né gli altri sparissero. Il sole sorgeva e tramontava e quando le Pleiadi sparivano, spariva l’inverno.  Si narra che i primi uomini che avevano scelto di vivere lì, fossero in fuga da guerre ed epidemie di un mondo marcio. Erano passate generazioni. Non era vietato andarsene, era vietato tornare.

Non so se e come sia uscita la notizia di questa valle segreta. Credo che sia stata portata oltre le grandi pareti da qualcuno a cui non piaceva il re, magari qualcuno curioso del mondo oltre le pareti. Non so se quella persona é sopravvissuta al dolore di non poter tornare. Sapere che esiste questo regno é una consolazione.

Wambli Galeshka

tre metri per tre

certe volte mi devo mettere a scavare nel mucchio delle foto del viaggio dalla Mongolia e ci sono dei momenti di una dolcezza inspiegabile che mi strizzano l’occhio da angoli remoti della memoria.
Le visite notturne dei mongoli quando ero ormai in camicia da notte nel saccopelo erano il quotidiano. Sul momento mi sembrava la cosa più normale del mondo. Venivano a trovarmi, mi insegnavano qualche parola, portavano sempre dei regali e soprattutto la semplice spensieratezza.
Il telo tenda è tre metri per tre. Si schiacciavano tutti lì sotto per respirare quell’aria della mia casa da viaggio. Gli preparavo un tè con il fornellino e loro si mettevano a chiacchierare come se fossimo comodi dentro una gher. Tre metri per tre diventavano un mondo: una cellula di avventura in viaggio tra lo spazio e il tempo.
Grazie nomadi della Mongolia, spero che quello che ho trovato laggiù non stia patendo troppo.

The marching wind di Leonard Clark

THE MARCHING WIND di Leonard Clark
tradotto per Garzanti come ‘Alle porte della Mongolia’

‘The marching wind’, tradotto in italiano senza nessun collegamento con il contenuto né con il titolo originale che descrive esattamente quello che si trova nel libro

Nel ’49 in Occidente si viveva una specie di pace, invece a Pechino non si poteva più stare per nessun motivo, l’esodo di tutte le etnie e religioni non ammesse dal comunismo si disperdeva ad occidente, andando a sbattere contro le catene montuose più alte e sconosciute del mondo. Leggende riguardanti i popoli nomadi che le abitavano avevano reso questo territorio ancora più misterioso.

Mappa generale dell’area intorno a cui si svolge la spedizione. Nelle cartine successive si può ritrovare ogni singolo campo. Ogni sera, dopo giornate di avventure e gelo, Clark disegnava le mappe e registrava sul diario gli avvenimenti, e n modo che, qualsiasi cosa fosse accaduta, Ma Pu Fang, committente della spedizione, avrebbe potuto ricevere tutte le informazioni raccolte fino a quel momento.

Pochi di quelli che avevano provato ad entrarci, ne erano usciti, ci si poteva avventurare solo sulla strada per Lhasa, ma solo con carovane numerose e armate, in grado di vegliare sul bestiame e difendersi dai briganti.
Tra quelle montagne spicca il massiccio dell’Amne Machin, montagna sacra per mongoli e tibetani, vegliata da monaci custodi che consentono il passaggio solo ai pellegrini. La lettura di diari e resoconti di sfortunate esplorazioni precedenti ha spinto Leonard Clark a partire per andare a misurare questa montagna. La traversata di un territorio di cui non esistevano mappe in un momento in cui la spinta ad occidente della rivoluzione stava per trasformare questa terra abitata dal vento in rifugio e fortezza di molti profughi è una corsa contro il tempo.

Una delle pagine dell’inserto fotografico. Nel libro sono descritti momenti perfettamente ritrovabili nelle foto che ampliano la suggestione di questo territorio e della gente che lo abitava. Le attrezzature erano quelle di allora, le immagini sono poche, ma raccontano molte cose.

Leonard Clark descrive in questo libro territori e genti che poco dopo sarebbero diventati un’altra cosa. Gli schizzi delle mappe, le foto dell’inserto e le descrizioni sono documenti di un mondo soffiato via poco dopo. Partenze prima dell’alba, marce estenuanti su terreni difficili e con il vento ovunque, la benedizione del Panchen Lama e i mezzi del governatore musulmano di Sining. Il resoconto del viaggio con i ritratti dei componenti della spedizione e le avventure da loro vissute somigliano a un romanzo, ma gli errori sono talmente umani da non poter essere reali.
L’affetto e la nostalgia per tutti loro è inevitabile quando la spedizione si conclude all’ultima pagina e i personaggi tornano ai loro posti nella storia fuori dal libro, dove i loro posti non ci sono più.

un cane sulle nuvole

una storia che non mi ricordo dove ho letto raccontava di quando un giorno il diavolo aveva deciso che con l’inverno i boschi sarebbero stati tutti suoi e, mentre stava progettando come riempirli di terrore, era talmente gongolante che non si accorse che un cane lo stava guardando.
lo guardava come guardano i cani certe volte, quando capisci che sono in grado di leggere i pensieri.
quel cane era vecchio, ma non troppo e, appena il diavolo si voltò, partì nella direzione opposta per correre a sventare i suoi piani e salvare le foreste.
non sapeva da chi andare e il tempo stringeva quindi mise una zampa su un fiocco di neve, poi su un altro che stava ancora cadendo e risalì il cielo fino alle nuvole come quando si risale una scala mobile che scende arrivando in cima con il fiatone.
sopra le nuvole c’era dio che come al solito era molto distratto, sussultò alla notizia senza darlo a vedere e andò a fare una passeggiata nei boschi insegnando al cane la strada per scendere dalle nuvole senza sfracellarsi.
nel bosco gli alberi erano già tutti spogli, solo le querce erano ancora coperte di foglie di bronzo.
dio mandò il cane in cerca del diavolo, lo seguì finchè non lo puntò, lui rimase in ferma finchè dio non lo ebbe raggiunto e non si fu messo a contrattare con il diavolo la salvezza delle foreste.
il diavolo disse che quando a tutti gli alberi del bosco fossero cadute le foglie, i boschi sarebbero stati suoi e dio disse che era d’accordo.
poi mandò il cane a dire a tutte le querce del mondo di tenersi ben stratte le foglie anche contro i venti più assassini e aspettò la primavera.
in millenni e millenni le querce hanno conservato quest’abitudine e rimangono coperte di foglie tenaci finchè le gemme di tutti gli altri alberi del bosco non sono pronte ad esplodere.
e il cane?
il cane continua a correre e a guardare e non gli è mai più venuto in mente di salire sulle nuvole, ma una volta lo ha fatto

Respiro di cristallo

Solo un momento, il cielo argentato la sera, fiocchi di neve gelida la notte e il pascolo coperto di cristalli. Quando ho visto che aria tirava, li ho lasciati lì. I cavalli della steppa, ancora più dei nostri, hanno un mantello che li protegge dal caldo dell’estate e dal freddo in pieno inverno. In tutto l’emisfero boreale si infittisce sempre di più fino al solstizio di dicembre, quando assomigliano a degli orsetti con gli zoccoli e si dirada sempre più fino al solstizio d’estate, quando sembrano foderati di seta.

Чигээрээ con la criniera di cristallo
Custode veglia sul suo amico

In piena notte sono andata a vedere ed era un incanto. Ogni rumore era sparito, le criniere erano candide e i cavalli sorridevano. La neve sa far diventare belle anche le cose più brutte e lì non c’era niente di brutto neanche sotto la neve.  Stamattina era ancora così.

Isotta Raminga

Isotta non poteva immaginare cosa avevo in mente quando mi sono avviata a piedi con lei scendendo dalla Sacra di San Michele e io non potevo immaginare quanto la sua volontà d’acciaio avrebbe influito sulla riuscita del pellegrinaggio. Quella sera siamo state ospitate da Dario e Marinella a Sant’Antonino di Susa. Loro ne avevano già viste di cose e guardavano perplessi il mio equipaggiamento: le bisacce nuove, molte cose inutili nei cilindri, un’intenzione precisa e determinata e una cavalla straordinaria che mi ha insegnato tutto quello che c’era bisogno di sapere per affrontare un viaggio così. Prima il suo nome era Isotta, in una settimana è diventata Isotta Raminga e l’equipaggiamento si è dimezzato.

settembre 2006 sentiero appeso sul Devoluy

Da allora non ho più potuto fare a meno di lei. Lei riconosce gli amici, i luoghi sicuri e la via dove non c’è, guarda dalla parte dove sorgerà il sole anche nelle mattine più grigie e non si abbatte mai. Riconosce i nemici e li affronta prima che io me ne accorga. Guai ad avvicinarsi a lei con cattivi sentimenti.
Lei mi ha portata a Santiago da qui, ma soprattutto mi ha riportata a casa e non si è mai saziata di strade nuove e notti di bivacco. Non è sazia neanche adesso che ha ventotto anni e si arrabbia tutte le volte che sello Custode e vado via senza di lei. Non può rimanere in panchina e non la lascerò in panchina.

giornata mondiale della montagna 2020

Gionni vagava nel suo territorio, niente paesi esotici o distanze invalicabili. Ogni volta che il tornante di quella pista portava in vista di quella borgata, la guardava. Di anno in anno le case abbandonate ed abitate da animali di passaggio erano più decrepite. Il tempo e le abitudini avevano portato quegli uomini lontano.
Alpe dei Rat, montagna di Condove
Lui non sapeva se era stato un sogno o qualcuno gli aveva raccontato che le persone che abitavano un tempo in quella borgata erano straordinarie. Vivevano in totale armonia e si erano rifugiati lassù per sfuggire a tempeste di idee bislacche. Loro erano in continuo contatto con gli elementi della natura e non potevano avere un solo dio. ogni foglia sui rami, ogni goccia di pioggia era dio. Costringere tutte queste entità in un unico contenitore per loro era impossibile. adoravano un esercito di dei, milioni di dei. Quelli che avevano un solo dio gli sembravano molto strani e quelli che combattevano contro chi aveva un dio diverso gli sembravano ancora più strani. Si erano rifugiati lassù perché non volevano convincere nessuno.
Il crollo del prezzo del latte e la guerra che aveva portato via i giovani li avevano fatti estinguere, ma uno di loro era finito per caso in Giappone. Sapeva che nella vecchia borgata non era rimasto nessuno e aveva trovato un paese dove un dio in più o un dio in meno non faceva la differenza. Il 31 dicembre scacciavano le cattive divinità dal tempio scintoista, il primo gennaio salutavano il nuovo anno nel tempio buddista e non dovevano rifugiarsi per vivere.
Una ragazza giapponese mi ha raccontato che in Giappone le cose stanno davvero così. Quel ragazzo che adesso sarà forse decrepito come queste antiche case, non è mai più tornato.
Gionni vagava nel suo territorio, paesi esotici e distanze invalicabili erano tutti lì.
12 dicembre 2015

Ballata del cavallo di Przewalski VIDEO

Mille e mille anni fa gli uomini vivevano di caccia. I cavalli selvatici erano preda ambita e galoppavano su tutte le steppe dell’emisfero boreale. Sono ritratti in pitture rupestri e manufatti di comunità di uomini che non avevano ancora inventato la scrittura. In America ed Europa sono stati cacciati fino all’estinzione e nessuno ha scoperto che salendogli in groppa si potevano compiere imprese incredibili. In Asia Centrale un giorno qualcuno è salito a cavallo e tante cose sono cambiate. Lì i cavalli selvaggi non si sono estinti finché gli uomini dell’occidente non hanno frequentato troppo assiduamente quei luoghi e li hanno riscoperti. Per me questi piccoli cavallini che Nikolaj Michailovitch Przewalski ha permesso di classificare, sono più mitici dell’unicorno e galoppano di nuovo liberi in Mongolia e in riserve naturali del resto del mondo. Questa storia è la chiave per aprire molte porte e, anche se è successa molti anni fa, vorrei raccontarne alcuni episodi perché è bella.

fuoco acceso telo tirato cavallo sazio per unire nella stessa avventura uomini cavalli e montagne