Nella storia le parole raccontano che molti eroi tentarono l’impresa di sconfiggere questo mostro che uccideva con il suo solo fiato chiunque incontrasse.
Molte volte, guardandone le rappresentazioni mi stupisce l’incontro degli sguardi di creature diverse che nell’attimo fatale si comprendono. Non mi ricordo di aver visto rappresentazioni in cui il drago é morto. L’attimo é sempre quello prima.
San Giorgio avrà ucciso il drago? O lo avrà addomesticato? O liberato? O chissà?
So che é passato alla storia come santo e mi piace pensare che le conseguenze della sua azione fossero per il bene di tutti quelli che lo hanno invocato nei secoli.
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Questi sono solo miei pensieri. Il dolore per quello che sta succedendo a tre mesi di viaggio a cavallo da qui, non mi lascia. Le soluzioni intraprese finora per fermare questo macello mi sembra che possano solo accelerarlo e aumentare le perdite in termini di vite umane. Provo a raccontare di altra gente che viveva in modo forse più semplice, forse più vicino di noi al confine tra vita e morte e che forse dava alla vita un valore diverso da noi. Ci provo, ma non sono sicura che c’entri.

I Lakota ritenevano di essere uomini in quanto parlavano tra loro la stessa lingua. Chi parlava un’altra lingua era un nemico. Crow, Pawnee, Piedineri avevano ragioni simili per sentirsi uomini e anche per loro gli altri erano solo nemici. Guardando da fuori ci si accorge subito che erano tutti uomini nello stesso modo e sembra stupido che dovessero combattere tra di loro. Erano società semplici e libertarie le cui scelte venivano valutate da un consiglio di anziani. C’era un capo di guerra che era un uomo coraggioso con una carriera di mirabili atti di valore in favore del suo popolo. A lui era affidata la tattica per guardare i confini del territorio della banda e per difendere la propria gente dai nemici.
Il suo eroismo era subalterno alle decisioni del capo di pace che era un uomo di valore, scelto per la sua saggezza a guidare le decisioni importanti.
Non bastavano i capelli bianchi a fare un capo di pace. Non bastava il numero di piume d’aquila sul casco di guerra per fare un capo di guerra.
Il fatto che fossero due persone diverse e che entrambi potessero essere allontanati con disonore, se mostravano di prendere decisioni o compiere azioni per il proprio interesse, era il motivo di equilibrio in questa società che viene descritta come primitiva.
Mi chiedo: la società occidentale e democratica é capace con tutte le sue strutture di raggiungere questo equilibrio? Cosa le manca? Perché ancora adesso sembrano stupide solo le guerre degli altri e quando potremmo evitarne una, continuiamo a fare il tifo per gli eroi? Crediamo ancora che basti un solo cattivo a scatenare una guerra mondiale? Com’è possibile che, sapendo di essere esattamente come il nemico, riusciamo ancora a pensare di combatterlo in modo così primitivo? Com’è possibile che l’analogo di un capo di pace attuale, oltre a decidere la guerra, si metta a fare anche il capo di guerra? Chi é più primitivo??
Cosa stiamo facendo!

Quando faceva freddo ero tre i grandi fiumi della Russia europea e la ragione del mio viaggio era portare dalla Mongolia alla Polonia una freccia che simboleggiava la pace. I russi hanno dato appoggio a me ed ai miei cavalli, per sostenere un’idea: un’idea di pace e libertà.
La mappa del mondo 5.5

In questi giorni tre anni fa, abbiamo percorso centocinquanta chilometri di questa strada. Le piste erano coperte da un metro di neve e l’unico modo per avanzare era questo. I cavalli filavano a trenta, trentacinque chilometri al giorno. Non fiatavano, non si spaventavano, non erano allegri ma neanche tristi. Avevano la faccia dell’inverno. Io intanto ho avuto modo di conoscere il mondo dei camionisti russi che sono i viaggiatori per eccellenza. Non c’è uno di loro che non abbia manifestato cavalleria e poesia e quell’attenzione del viaggiatore con cui si scambiano informazioni sulla strada, sulle condizioni dei ponti, su tutto quello che serve per andare avanti. I camionisti sono i viaggiatori di questo tempo. Hanno le loro rotte, punti di riferimento, persone che tornano a salutare ogni volta che passano. Non contano più i chilometri e le notti sulla strada. Stentano di ricordare l’ultima notte che hanno passato in un letto.

la mappa del mondo 4 di 5

In un viaggio verso il Massiccio centrale, mi ero trovata ad attraversare le foreste da cui Vercingetorige aveva ostacolato l’avanzata di Giulio Cesare in Gallia tanti secoli prima. E’ una regione davvero perduta e affascinante, percorsa da una rete di piste incantevoli circondate da alberi talmente antichi, che forse qualcuno era già lì quando Vercingetorige ci si nascondeva. Andando verso Florac il calore faceva tremare le distanze e c’è stato un tratto interminabile attraverso la foresta. Credo che ci siano volute quattro ore per attraversarla. Tutto era rallentato. Al ritorno dovevamo percorrere quello stesso tratto, ma siamo partite prima dell’alba e mentre il sole spuntava, dopo un’ora e mezza, eravamo già al castello che ne segnava il limite ed eravamo fresche con i cavalli riposati. Se avessi dovuto disegnare a memoria una mappa di quel tratto di pista dopo averlo percorso all’andata, sarebbe venuto lunghissimo, viceversa se avessi dovuto disegnarlo dopo averlo percorso al ritorno.

Era successo altre volte prima ed è capitato in seguito che lo spazio si dilatasse o restringesse nell’esperienza, a seconda di come stavo io o i cavalli, del meteo, della tensione verso qualcosa. Quella volta era stato evidenziato dall’orologio che mi ha permesso di mettere a fuoco questa idea: lo stesso spazio può essere cose diverse a seconda dell’esperienza, la sua rappresentazione geometrica aiuta ad orientarsi, ma è solo uno strumento. Scegliere dove e come dare volume allo spazio assomiglia a scegliere dove e come dare volume alla vita.
La mappa del mondo 3 di 5

“Le strade che collegano il mondo abitato, sono confini che isolano mondi a sé stanti, in cui non c’è nessuno. La rotta di un viaggiatore a cavallo nel XXI secolo, ne tiene conto per scoprire i varchi dove attraversarle, subendo il meno possibile la loro corrente, impetuosa o tranquilla a seconda dell’orario e delle dimensioni dei centri che collegano.
In tempi andati, non così lontani ma estinti, i cavalli viaggiavano sulle strade. In quest’epoca conviene evitarle.
È successo che, guardando come evitare le strade, come erano fatte le montagne e dove passavano i fiumi, sono andata a finire su antiche rotte in disuso, nascoste oltre il confine del traffico.
Le strade non sono sempre state negli stessi posti ma le mete sì.
Gli animali hanno bisogno delle stesse cose da sempre, a maggior ragione quando lavorano.
Hanno bisogno di cereali, pascolo e acqua, di riposare al riparo dal vento e dal fulmine, di sostenere il minimo dislivello possibile.
Tenendo conto di queste esigenze e della geografia, non ci sono tante possibilità, ci si ritrova a camminare su pietre consumate dal logorio di altri passi. Anche dove le antiche vie di collegamento sono ormai cancellate dall’abbandono, hanno lasciato delle tracce.”
da Campo di Stelle a cavallo a Santiago
La mappa del mondo 2 di 5

Un giorno sono uscita dal perimetro che delimitava la cartina di Alta val di Susa, Chisone e Germanasca. Quel foglio andava ben oltre il Monginevro e mi ha accompagnata fino in Francia. Cime e fiumi erano tutti da scoprire, la gente parlava un’altra lingua che non capivo ancora e un giorno mi sono fermata da Robi nel Luberon. Lui è un viaggiatore a cavallo ed era andato a Santiago da lì vent’anni prima. Mi ha mostrato le carte di quel viaggio, indicandomi i trucchi migliori per vedere le cose più belle, tenendomi alla larga da civilizzazione e guai. Gli appunti che mi ero presa con le sue dritte mi hanno guidata fino a Finisterre. Sulla cartina l’unica via per andare da casa sua alla tappa successiva sembrava la strada asfaltata. Lui mi ha voluto accompagnare per un pezzo e in quel tratto non c’era neanche il rumore della strada. Le nostre strade si sono divise a ovest di Cucuron. Lì il sentiero finiva e davanti a noi si vedeva una foresta uniforme senza tracce. Ha indicato un traliccio dell’alta tensione su una sella oltre la valletta e mi ha consigliato di passare dalla foresta mirando lì e che da lì avrei dovuto traguardare alla sella seguente e avanzare in fuoripista per tre valli, fino a una strada sterrata che mi avrebbe condotta al ponte sul Rodano.
Le sue indicazioni hanno funzionato alla perfezione e ho potuto farmi aiutare da tracce di animali selvatici per arrivare proprio dove volevo.
la mappa del mondo 1 di 5

La mappa della Bassa Val di Susa ha preso molti temporali, l’ho stesa al sole ad asciugare, ho dovuto rattopparla con lo scotch, ho provato a cucirla, non ha più la copertina. L’ho girata in lungo e in largo, sempre a cavallo. Non sono ancora riuscita a camminare su tutti i sentieri che rappresenta, non so se ci riuscirò mai. Battere un territorio da cima a fondo per ammirare come sono belle tutte le roccette di cui avvisano le curve di livello, riposare o galoppare in tutti i prati, assaggiare l’acqua di ogni sorgente e fare il bagno in tutti i laghi é un progetto ambizioso. Il tesoro che si trova alla fine del gioco è quasi psichedelico: guardando la mappa, sembra di rivedere ogni cosa: i dislivelli si trasformano in storie, i fiumi in guadi. Il bello di non arrivare mai in fondo é che ogni volta che la guardi in quel modo, alcune aree rimangono a due dimensioni, sono quelle mai approfondite, in cui rimane campo per l’esplorazione. Non credo che mi sazierà mai. Scoprire un nuovo pascolo, una famiglia di allevatori, un cacciatore o un motociclista, una tana o un castagno ricco di secoli richiede di tornare. Non basta incontrarsi una volta per conoscersi. Torna qui e torna là, fai una strada nuova per andare nello stesso posto e al ritorno fanne un’altra. Cerchi la civilizzazione e modifichi la rotta per incontrare villaggi, la sfuggi e modifichi la rotta per rimanere in cresta. Trovare tutti i trucchi per aggirare l’autostrada, la ferrovia e le statali. Una superficie di 1200 kmq é già sconfinata. Uscire dalla cartina della Bassa Val di Susa é una scommessa: oltre certe cime é tutto nuovo, entro il perimetro tutto é in evoluzione.
L’armonia del vento
Smilzo era un maremmano gigantesco. Quando lo ho visto l’ultima volta, nel suo aspetto non c’erano più somiglianze con il cavallo che aveva ricevuto questo nome. Era un personaggio: mi ha accompagnata mentre studiavo e quando accendevo il mangiacassette veniva alla finestra a sentire. Se alzavo il volume si allontanava, quando lo abbassavo si avvicinava, certi motivi lo lasciavano incantato, altri non gli interessavano e si rimetteva a brucare intorno alla casetta dove studiavo, in attesa di qualcosa di meglio.
E’ stato il primo cavallo con cui ho provato a passare delle notti in montagna in autonomia e il suo interesse per la musica mi sembrava normale. I cavalli amano l’armonia e in certa musica c’è una ricerca di armonia.

Ogni volta che mi entra un motivo in testa e non se ne va, mi viene l’istinto di fischiettare. Salendo sulla pista della Mulatera, si arriva a un traverso che segue la costa della montagna e di colpo cambia versante. Prima sei nel bosco, poi sei tra aridi pascoli tagliati dalla pista che sale inesorabile. Era il tramonto e la luce delle rocce e del cielo creavano un’atmosfera speciale. Con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, lo spettacolo che si apre in quel punto è grandioso. Quella volta io guardavo la criniera di Giacomo Re che avanzava con passo preciso e proprio in quel punto mi sono messa a fischiettare un motivetto insulso. Giacomo si è girato e mi ha guardata con aria di rimprovero. Ogni volta che sono passata da lì dopo quel giorno, ho provato lo stesso senso di inadeguatezza. Giacomo Re mi ha insegnato tante cose, ma soprattutto quel giorno. Il suo sguardo aveva detto: ‘ma come fai a non vedere che qui c’è già la musica del vento?’
semplicemente tè
Il tè mongolo é prevalentemente composto da scarti del tè verde cinese e venduto in mattonelle pressate come questa. Vengono portate in buste di cuoio che vengono appese a dx della porta della gher. Ogni donna ne ha una e quando parte, la porta con sé.



Questo è quello che mi resta dell’Ivan tchai di Katia. In Russia è frequente trovare il tè nero, ma viene dalla Cina e in epoche peggiori di questa era costoso per la gente comune che metteva in infuso l’ivan tchai. Questo si ottiene con la macerazione ed essicazione delle foglie di Epilobium che é un’infestante ruderale comune anche qui.
Il samovar é fatto così: c’è un braciere dove si mette del carbone acceso e dei piccoli legnetti, all’inizio fuma un po’, poi cimisce e la brace sempre accesa non fuma più. Il braciere scalda e tiene in caldo l’acqua contenuta nella caldaia intorno al tubo da cui esce il fumo. Sopra il ‘camino’ c’è un vassoietto su cui è appoggiata una piccola teiera che contiene le erbe e l’acqua bollente versata con un rubinetto nel piano basso della caldaia. Nelle tazze si versa un sorso di questo liquido di infusione molto concentrato che viene diluito con acqua bollente tazza per tazza.

In casa di solito si semplifica in questo modo: sulla stufa c’è un bollitore e sul tavolo una teiera in cui si infondono le erbe nell’acqua bollente. Il liquido concentrato viene versato completamente in una tazza e rimesso nella teiera per tre volte, poi ne viene versato un sorso in ogni tazza che viene diluito con l’acqua bollente del bollitore. Chi vuole aggiunge latte freddo. A oriente tutti. Verso l’Europa sempre di meno. Qualcuno, per fare l’europeo, invece del latte mette il limone e tutti si stupivano che io aggiungessi sempre il latte come gli asiatici..ma io non mi toglierò mai la nostalgia dell’Asia e nel tè nero aggiungerò il latte ogni volta che ce l’avrò.